Ieri, 20 settembre 2017, abbiamo dato l’ultimo saluto al nostro dottore, quello dell’infanzia, quando non c’erano specialisti, pediatri (anche se lui già lo era), allergologi o escapologi.
Si andava da lui per tutto.
È stato il dottore dei miei nonni, dei miei genitori ed il mio.
Mio padre racconta sempre un episodio.
Lui giovincello e nel pieno delle forze, dopo una qualche vittoria della locale squadra calcistica, era andato a festeggiare insieme ai compagni e nella combriccola c'era anche il dottore.
Una volta rientrato a casa è stato male da quanto aveva bevuto.
Parliamo di uomo quindi con i sintomi un po’ ingigantiti.
Presumo non abbia invocato la madre per le ultime volontà primo perché non aveva il telefono e secondo perché lei era già al suo fianco.
Sua mamma, mia nonna, un po’ in ansia, chiama il dottore perché
“Il mio Tonino non sta bene, è pallido ed è a letto che non riesce ad alzarsi”.
Vi ricordo che al tempo non c’era google da consultare, purtroppo!
Nel mentre che il dottore raggiunge la casa, mia nonna prepara una bevanda calda da somministrare al figlio, come da convenzione sociale che ancora oggi ci trasciniamo.
Sei triste?
Ti faccio un the
Hai mal di pancia?
Ti faccio un the
Hai la febbre?
Ti faccio un the
Hai problemi d’amore?
Ti faccio un the…
E no, lì ci vuole cioccolato, a chili!!
Il dottore arriva, osserva il paziente, afferra la tazza e trangugia senza pensarci la tisana che mia nonna aveva appoggiato sul comodino per il figlio e soddisfatto con fare professionale comunica: “Ha bevuto, è solo ubriaco” e se ne ritorna alla festa.
Mi ricordo che quando si era a scuola, si partiva tutti in fila indiana, due a due e mano nella mano, con la maestra in testa e si andava nel suo ambulatorio per le vaccinazioni.
Al nostro arrivo però non c'era uno stuolo di mamme in protesta con striscioni NO vax o SI vax ad accoglierci.
Noi venivamo tutti allineati a chiappe scoperte e trik trak il dottore ci bucava tutti, uno per uno in sequenza.
Ho sempre odiato gli aghi e una volta per iniettare tutta la siringa la maestra ha dovuto immobilizzarmi perché il buon dottore per ben due volte lanciava la siringa e io allontanavo la chiappa.
Una cosa però mi è sempre rimasta stampata in mente, come un ricordo indelebile.
Ogni tanto penso a come mai alcune cose restino lì abbarbicate al cervello e sporadicamente balzino fuori così chiare e limpide che ti sembra di riviverle nello stesso preciso momento; cose anche di scarsa importanza, ma che non si fa la minima fatica a ricordare.
Era una normale sera ed io ero a tavola con i miei genitori, in quelle serate che ricordi sempre silenziose. Facevo la cretina con la sedia…e cosa mai avrei potuto fare…e mi dondolavo sulle gambe posteriori stando attaccata con le braccia al tavolo.
Ste infami di gambe si sono andate ad incastrare nelle fughe del pavimento e io sono caduta all’indietro.
Oltre il danno la beffa: alle spalle avevo la stufa e mi sono sbragata un po’ la testa. Qui non ricordo bene l’entità, ma credo che ai giorni nostri saremmo corsi al pronto soccorso con un eliambulanza e come minimo avrei fatto un’antitetanica, punti di sutura e i miei sarebbero stati convocati dagli assistenti sociali per incuria di minori.
Nei primi anni ’80 invece la procedura era diversa.
Dopo aver preso una sequenza di insulti da mia mamma e mio padre aver verificato l’entità del danno che avevo procurato alla stufa, perché si sa, la testa si ripara ma la stufa no, siamo andati a casa del Dottore, nonostante l’ora.
Ricordo che nell’ambulatorio mi ha pulito il taglio, messo un cerotto e raccomandato con il suo vocione: “Da domani tieni al caldo la testa con una cuffia”.
Mi sentivo ridicola con la cuffia di lana in testa il giorno dopo quando ero a scuola, avrei preferito mostrare fieramente la mia ferita, ma il Dottore aveva parlato.
Ieri durante la funzione mi sono guardata in giro e mi sono ritrovata bambina.
Facevo parte della generazione che “Fino alla cresima si va a messa tutte le domeniche!!”, quindi di tempo tra le mura della chiesa ne ho passato parecchio.
In chiesa mi sentivo come se indugiassi in un dormiveglia, cullata dalla consapevolezza del calore del letto. Una tregua prima di ritornare a vivere.
Contavo gli archi, le decorazioni, le pecore disegnate sul soffitto, il numero di panche e tutto quello che era possibile per ingannare il tempo dell’omelia, ma soprattutto combinavo guai con la cera.
Perché ancora non c’era la 626, in seguito 81, legge sulla sicurezza e le candele ce le avevamo di cera vera e facevano vero fuoco.
Si accendevano, si spegnevano, ci ricoprivamo i polpastrelli di cera, si modellavano, fino a quando Don Vittorio non ci sgridava e per un buon quarto d’ora si rimaneva composti e affranti.
Ora il tutto è stato sostituito da un marchingegno più tecnologico dove infili la finta candela, premi un pulsante e si accende il finto fuoco.
Addirittura nella teca dietro non c’è più la statua, ma un pompiere che in pianta stabile dimora lì dentro, dovesse crearsi un cortocircuito, ma è travestito da San Giorgio (sapete quello che ha sconfitto il drago?) così da passare inosservato.